Molti cittadini europei in questi giorni stanno prendendo la parola o manifestando per opporsi all’aggressione di cui si sta rendendo protagonista Erdoğan. A questo però, spiace constatare, non corrisponde ancora una risposta istituzionale e diplomatica all’altezza della situazione.
Nel Parlamento Europeo il fermento è grande e diverse sono le iniziative messe in campo. Dure e ferme sono state le parole del Presidente Sassoli, così come netto è stato il dibattito nel suo complesso che si è tenuto in plenaria della scorsa settimana. Inoltre, in 225 parlamentari europei, abbiamo scritto all’Alto Rappresentante Federica Mogherini chiedendo alcuni impegni precisi, incluse la messa al bando di esportazioni di armi europee alla Turchia e la possibilità di imporre sanzioni mirate e limitazioni ai visti per chi è responsabile di violazioni dei diritti umani.
Su questo si è sviluppato anche il confronto nell’ambito del gruppo dei Socialisti e dei Democratici dove sono intervenuto proprio oggi.
Abbiamo chiesto la convocazione immediata della Delegazione parlamentare (di cui sono membro) che segue i rapporti con la Turchia e la settimana prossima il tema approderà finalmente nella sessione plenaria di Strasburgo. Mi auguro, come tanti, che la risoluzione che sarà adottata alla fine del dibattito parlamentare non sia tenue o ambigua. Servono infatti impegni cogenti.
Schematizzando, sapendo ovviamente che la materia è delicatissima e complessa, direi che si devono mettere in campo più atti: l’embargo delle armi, le sanzioni di carattere commerciale, la definizione di una “no-fly zone”. Inoltre serve che la comunità internazionale si assuma la responsabilità di organizzare una forza di interposizione a difesa di un popolo, quello curdo, sotto attacco.
Perché il punto politico più rilevante è questo: non siamo di fronte ad un’azione per la “sicurezza nazionale” della Turchia ma di fronte a un’invasione.
Spiace constatare che, in questo contesto, dal vertice dei Ministri degli Esteri UE non riescano a emergere impegni altrettanto stringenti, a partire (perfino!) dalla vendita di armi che è stata derogata a faccenda nazionale e limitata ai contratti futuri. Non è sufficiente e non può essere così debole, incerta e frammentata la voce dell’Europa rispetto a una tragedia che sta avvenendo ai nostri confini. In gioco ci sono i nostri valori fondamentali, anche questi oggi sotto il ricatto di Erdoğan, che sprezzante minaccia di “consentire” l’invasione di migranti.
La verità però è che dietro questa minaccia di Erdoğan non c’è solo un ricatto inaccettabile, ma anche la debolezza europea che deve finire subito. Abbiamo fornito più di tre miliardi per organizzare l’accoglienza dei profughi sotto la responsabilità della Turchia, mondandoci le coscienze e non volendo avere a che fare, così, con il tema dei migranti e dei rifugiati, principalmente quelli in fuga dalla guerra in Siria e dall’Isis.
Abbiamo pagato senza pensare alle violazioni dei più elementari diritti umani (il 18 settembre ho presentato un’interrogazione parlamentare su questo insieme a Patrizia Toia) e fino a qualche giorno fa c’era, perfino, chi “avviava” le discussioni per il rinnovo degli accordi medesimi.
Mi piace pensare che l’Europa vera sia quella delle piazze che chiedono la fine dell’aggressione turca e non quella timida e balbettante uscita dal vertice in Lussemburgo.
Anche per questo, con molta umiltà di fronte alla sofferenza di un popolo, ho incontrato ieri i rappresentanti in Europa di HDP, il partito turco che unisce le principali forze filo-curde e di sinistra. È stato un incontro importante e intenso che mi ha dato uno spaccato ancora più profondo della drammatica situazione che sta vivendo chi è aggredito.
Inoltre ho avuto l’occasione di incontrare, proprio ieri sera, Muharrem İnce, del partito socialdemocratico CHP e principale avversario di Erdogan alle ultime presidenziali. Non lo nego: non si è trattato di un confronto semplice.
Ognuno in queste ore deve tentare di fare la sua parte. E deve sapere che dovrà farla anche nelle prossime settimane e nei prossimi mesi. Poiché un’altra crisi umanitaria è cominciata.