Alla fine della settimana di lavoro a Strasburgo sono partito per la Polonia insieme ai miei colleghi Brando Benifei e Pietro Bartolo. Ci siamo messi in viaggio per vedere di persona gli effetti della crisi al confine con la Bielorussia e incontrare alcune delle persone che cercano di prodigarsi per aiutare i migranti bloccati nella foresta. Abbiamo trovato un clima di grande tensione, le persone che aiutano i migranti vogliono restare anonime, gli attivisti e i giornalisti hanno paura. A Byalstok abbiamo incontrato il vicesindaco Konrad Sikora, e al centro WOSP alcuni volontari; abbiamo visitato un ospedale dove le testimonianze dei migranti ricoverati mettono i brividi.
Un’attivista ci ha raccontato un episodio di questi giorni, quando una giovane donna ha partorito nel bosco, senza alcuna assistenza, ed è morta insieme al suo bambino. Non dimenticheremo le immagini delle schiene e delle braccia dei giovani profughi pestati nelle foreste, probabilmente dalla polizia. O di aver visto piangere una giovane madre curda sdraiata nel letto dell’ospedale, perché da quando l’hanno ricoverata d’urgenza le autorità polacche non le dicono dove sono finiti i suoi bimbi. “Li hanno messi in un centro, non mi spiegano dove. Quando mi dimetteranno non so se li rivedrò”. O Sab, uno yazida sfuggito all’Isis, che ha le cosce e le ginocchia devastate dalle torture. L’ho incontrato in uno dei pochissimi centri d’accoglienza esistenti. Allarga le braccia e si domanda perché chiedere asilo in Europa sia tanto difficile pure per lui. Il governo polacco non organizza una vera politica d’accoglienza, la solidarietà è criminalizzata, eppure molte attiviste e molti attivisti sfidano i divieti e il rischio del carcere per fare una cosa forte e semplice: salvare vite. Questa è l’Europa che dobbiamo essere.
Qui oggi su L’Espresso il nostro appello.